San Giuseppe Cafasso

GIUSEPPE CAFASSO (1811-1860)


Nasce a Castelnuovo d'Asti nel 1811. Di salute malferma entra nel Seminario di Chieri (Torino). Sacerdote già a 22 anni ha un solido ascendente sui compagni. A Torino compie opera di catechesi verso i giovani muratori e i carcerati. Insegna nella cattedra di teologia morale, formando così generazioni di sacerdoti. Si dedica anche ad un'intensa opera pastorale verso tutti bisognosi, tra cui i carcerati e passa le ultime ore con i condannati a morte. Grande amico di san Giovanni Bosco lo aiuta materialmente e moralmente nella sua missione. Papa Pio XII lo canonizzerà nel 1947, proclamandolo Patrono dei carcerati.

Questa perla del clero italiano ebbe i natali il 15-1-1811 a Castelnuovo d'Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, da poveri, ma piissimi genitori. Sotto la guida della mamma, Giuseppe, terzo dei quattro fratelli, crebbe umile, devoto e candido tanto da dare la sensazione di non avere difetti.
 Mattiniero nel servire la Messa, il più diligente nello studio del catechismo, assumeva atteggiamenti da predicatore con i compagni e i vicini ripetendo sovente nell'aia quanto andava imparando a scuola e in chiesa.


Siccome mostrava una spiccata tendenza alla vita ecclesiastica, a 13 anni fu mandato dai genitori a studiare il latino a Chieri. Nello sviluppo il piccolo Giuseppe piegò alquanto la persona verso sinistra con un rialzo della spalla destra. Quante volte i compagni più discoli gli batterono col pugno sulla spalla più alta e, tra i lazzi di tutti, lo schernirono chiamandolo Cafasso! Il poverino non sempre riuscì a calmare i piccoli monelli con le parole più dolci. Quasi tutti però lo ritenevano un secondo S. Luigi tanto era grande la regolarità di lui alla scuola, alla chiesa e l'impegno nello studio.

 Nel 1826 il Santo chiese di entrare nel seminario di Torino, ma per mancanza di posto dovette continuare gli studi filosofici nel Collegio Civico di Chieri e indossare, Fanno successivo, la veste talare nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo. Dopo aver studiato per due anni teologia in casa del dotto prevosto, D. Bartolomeo Dassano, nel 1830 ricevette a Torino la tonsura e gli ordini minori. Da allora poté godere di un beneficio comunale, il cui reddito devolveva in beneficenza ai poveri del paese. Per altri tre anni studiò teologia a Chieri nella casa dei Padri dell'Oratorio dove Mons. Chiaverotti, arcivescovo di Torino, aveva aperto un seminario succursale per un centinaio di chierici. Nella condotta del Cafasso si notò soltanto "una straordinaria osservanza dell'ordinario". Nel 1833, al termine del quinto anno di teologia, fu classificato ottimo per l'ordinazione sacerdotale. Quando la ricevette a Torino era persuaso che per ringraziarne degnamente il Signore gli sarebbe occorsa nientemeno che un'eternità. Novello sacerdote, il Cafasso aveva proposto davanti al crocifisso: "Io non voglio, non cerco, non desidero altro che farmi santo, e sarò il più felice degli uomini facendomi santo, presto santo e gran santo". Per abilitarsi nella morale frequentò a Torino il convitto ecclesiastico fondato e presieduto, presso la chiesa di San Francesco d'Assisi, dal Teol. Luigi Guala (1775-1848), che v'insegnava la morale di S. Alfonso de' Liguori seguendo il probabilismo moderato, osteggiatissimo da giansenisti e regalisti. Dopo tre anni affidò al Cafasso il compito di Ripetitore perché era chiaro nella esposizione, acuto nel penetrare le difficoltà e facile nello scioglierle. "Ho trovato un giovane che fa per me", disse egli un giorno preoccupato per l'avvenire del suo centro di studio. Con l'aggravarsi del male, nel 1843 lo fece Direttore del Convitto e Maestro di morale. Prima di morire lo nominò suo erede universale e lo stabilì confessore permanente in San Francesco d'Assisi con relativo beneficio.

 Il nostro santo divenne così il sapiente forgiatore di anime dalla cattedra, dal pulpito e dal confessionale. Le sue istruzioni ai convittori erano "piane e sugose" e le sue risposte "pronte e precise". Nell'insegnamento metteva la massima cura e né il mal di denti, che sempre patì, né la tosse, né l'affanno per il mal di cuore lo costrinsero a un solo giorno di vacanza. Un pomeriggio era tornato stanco da Romano Canavese dove aveva assistito due assassini condannati all'impiccagione. Al servitore che gli suggeriva di prendere un po' di riposo rispose: "Mi riposerò nella tomba. Ora è tempo di lavorare per il Signore".
 La chiesa di San Francesco d'Assisi ebbe in lui un rettore zelante e munifico. I torinesi la frequentavano volentieri perché la mattina, ad ogni ora, vi trovavano la Messa e la comodità di confessarsi. Su tutto egli sorvegliava con scrupolo, quasi con puntiglio: sulla pulizia del pavimento, degli altari, degli arredi sacri e dei banchi, sulla regolarità del servizio e specialmente sulla predicazione che voleva ben fatta. Nelle sacre funzioni lasciava che gli altri figurassero, mentre lui si univa ai convittori come fosse uno di loro. Rimproverava perciò ai sacerdoti quelle ambizioncelle che li portavano a scegliere i primi posti.
 Il Cafasso non sapeva concepire un sacerdote che non amasse il confessionale. Egli vi stava chiuso non meno di quattro ore al giorno perché, per lui, la prima e più gradita occupazione della giornata era quella di consolare i peccatori. Tre doti facevano di lui il confessore ideale : la scienza della materia, la brevità dell'esortazione e l'introspezione dei cuori. In una mattinata confessava più lui che due o tre sacerdoti insieme. Ai penitenti consigliava la comunione frequente, anche quotidiana, raccomandava l'uso delle giaculatorie, dell'acqua benedetta, del segno di croce e delle piccole mortificazioni quotidiane.

 Attraverso il confessionale il Cafasso divenne l'uomo di tutti. In Piemonte era chiamato "il consigliere generale". Anche la sua camera era diventata, senza sembrarlo, un ufficio di consulenza gratuita pubblica e privata. Mons. Fransoni, arcivescovo di Torino, lo aveva nominato esaminatore prosinodale e membro di tutte le commissioni ecclesiastiche, e andava sovente a trovarlo in Convitto nonostante i dispetti della plebaglia che, poco entusiasta della sua intransigenza, legava le ruote della sua berlina, ne fracassava i vetri e vi gettava dentro dei cani. Non meno di 22 vescovi andavano per consiglio da lui oltre i numerosi sacerdoti e religiosi, avvocati e militari, nobili e plebei, cattolici e carbonari. La marchesa di Barolo lo chiamava "il patriarca dei preti". Senza infingimenti egli al clero rimproverava l'attaccamento alle cose terrene, l'abitudine del gioco, la frequenza delle piazze, dei locali pubblici e degli spettacoli. Amava che il sacerdote desse a tutti l'esempio di una vita eucaristica "trovandosi in chiesa fuori d'ora e solo anche in tempo in cui potrebbe divertirsi".
 Esortava tutti a confessarsi pubblicamente e riprovava coloro che "cercano il confessionale in segreto e vi vanno come fossero dei ladri". Fu udito più volte esclamare: "Disgraziato quel prete che ha troppo lavoro". Sapeva però animarli alla speranza di cui ogni prete, diceva, doveva averne un magazzino. Vissuto nel periodo più critico della storia d'Italia, fu estraneo e alieno da fervori patriottici perché "la politica del prete, affermava, è la salvezza delle anime". Di lui erano tutti contenti, anche gli anticlericali. Difatti asserivano: "Don Cafasso non ce l'ha con nessuno, ma soltanto contro il peccato".

 Rifiutò la nomina di deputato. Pare che lo si volesse anche fare cavaliere. A chi ne lo interrogò rispose: "S. Giuseppe fabbrica in Paradiso le croci e poi le manda sulla terra: fortunati quelli che le ricevono e sanno sopportarle con rassegnazione".
 Il Cafasso, maestro di eloquenza ai suo convittori, catechista dei carcerati e dei ragazzi di strada, fu pure un impareggiabile predicatore di esercizi spirituali al clero e alla borghesia nel Santuario di Sant'Ignazio, sul monte delia Bastia. Del tutto negativa era la prima impressione che egli suscitava al vederlo gobbo, emaciato, con un viso più da asceta che da oratore. Quando però cominciava a parlare, attesta Mons. Bertagna, "le sue parole piombavano sul cuore come fulmine e toccavano così profondamente da portare al pianto". Tra i suoi scritti figurano gli Esercizi Spirituali al clero e le Sacre Missioni al popolo, oltre un grosso volume di Teologia Morale.
 I frutti abbondanti che raccoglieva nel suo ministero erano dovuti all'intensissima sua vita spirituale Benché malaticcio fu sempre mortificato al punto da conoscere bene l'uso delle catenelle e del cilicio, nonché l'aumento progressivo dei digiuni e delle astinenze. Distaccato dai beni della terra suggeriva ai benestanti di dare ai poveri il superfluo, ed egli stesso consumava in elemosine quanto aveva di proprio e gran parte dell'eredità lasciatagli dal Guala. Molte persone facoltose, tra cui la Marchesa di Barolo, gli portavano grosse somme di danaro perché aiutasse le famiglie decadute, i poveri vergognosi e i malati che raggiungeva ad ogni ora anche nelle soffitte. La veste talare e i calzoni di lui erano forniti di tante tasche per contenere monete di diverso taglio, che distribuiva ai mendicanti lungo le strade di Torino. Beneficiarono della sua inesauribile carità pure la stampa cattolica e gl'Istituti religiosi. In una sola volta fece mandare dalle cascine di Rivalba ereditate ben quaranta sacchi di grano alla Piccola Casa della Divina Provvidenza. Ma chi beneficiò maggiormente dei suoi aiuti fu S. Giovanni Bosco (1815-1888). Difatti lo mise in seminario, lo chiamò con sé in convitto e gli affidò l'opera dei catechismi. Di lui e della sua opera divenne ispiratore, consigliere e protettore. A chi gli rimproverava il suo interessamento per quel "mungi-quattrini" diceva: "Ah! se sapeste quanto pesa quel D. Bosco! Lasciatelo stare. Fa un grandissimo bene a tutta la gioventù. Farà miracoli e tutto il mondo parlerà di lui".

 A Torino le classi più bisognose di assistenza in quel tempo erano i giovani, i poveri e i carcerati. Per gli operai, in genere muratori, e per gli spazzacamini valdostani egli organizzò corsi di istruzione religiosa. I più miseri avevano da lui un vestito ed erano spesati nel loro apprendistato. Più volte la settimana il santo visitava le quattro prigioni di Torino. I carcerati erano i suoi "amici prediletti", le sue "perle". Seduto sullo stesso loro pagliericcio li istruiva, faceva loro dolce violenza perché si confessassero e li soccorreva con pane, frutta, danaro e tabacco. Al ritorno in convitto sovente doveva cambiarsi da capo a piedi per gli acquisti, colà fatti, di pulci e pidocchi che chiamava "i guadagni del prete".
 Il Cafasso non abbandonava i carcerati soprattutto quando erano condotti al supplizio. Un giorno supplicò il Signore perché gli concedesse la conversione di quanti avrebbe accompagnato al Rondò della Forca. Sereno e forte, fu presente a 68 esecuzioni capitali quando altri, come D. Bosco, cadevano svenuti all'apparizione del primo giustiziato. Per questo suo pietoso ufficio era chiamato "il prete della forca". Memorabile fra tutte fu l'esecuzione (1849) del generale mazziniano Gerolamo Ramorino che, per imperizia o gelosia, aveva abbandonato il ponte, alla Cava, alle truppe austriache del maresciallo Radetzky, preparando così la sconfitta di Novara. Anch'egli fu indotto a fare "la predica" come tutti gli altri davanti al popolo col baciare il crocifisso. Il Cafasso, scrive D. Bosco, "aveva il dono di mutare la disperazione in viva speranza e amor di Dio; fossero giusti o peccatori, parlando con D. Cafasso ognuno si sentiva crescere in cuore il desiderio del Paradiso". Ai più scoraggiati diceva infatti: "Un palmo di Paradiso aggiusta tutto e vale la pena di soffrire un poco per averlo".
 Per conto suo, attesta ancora D. Bosco, "viveva come uno che ha le valigie fatte e il passaporto pronto e che è in procinto di partire". Quando, vero "martire del confessionale", fu colto in chiesa da un brivido di freddo che lo inchiodò a letto per dodici giorni, esclamò: "Stavolta vado in Paradiso!" Al vecchio servitore che lo supplicava di non abbandonarlo, rispondeva sorridendo: "Felice, Felice! Il Paradiso è un bei paese!". D. Bosco non poteva più staccarsi dal suo letto e sembrava impietrito dal dolore. L'infermo ebbe la comunione tutte le mattine e il Viatico nel quarto giorno della malattia. Desiderava tanto rimanere solo. "Non sapete, sospirava, che ogni parola detta agli uomini è una parola rubata al Signore?". Morì il 23-6-1860 di sabato, come aveva desiderato, dopo che ad un tratto si era sollevato da letto con tutto il corpo e aveva teso le braccia con un sorriso celestiale sulle labbra.
 Nel 1896 dal cimitero di Torino i suoi resti mortali furono portati nel santuario della Consolata dove, già dal 1870, il Convitto aveva trovato una nuova e più degna sede. Il Cafasso fu beatificato da Pio XI il 3-5-1925 e canonizzato da Pio XII il 22-6-1947. È il patrono dei Cappellani delle carceri.